ASCOLTAMI QUANDO NON PARLO

[La mia esperienza con il mutismo selettivo]

Photo: Archivio personale

Sono sempre stata molto legata a mia sorella. Lei è più piccola di circa un anno.
Tutte le altre persone l’ho aggiunte successivamente nella mia lista di persone con le quali posso parlare.

La mia famiglia era composta da mia sorella Ana, mamma, papà e nonno.

Durante i primi anni dell’infanzia papà accompagnava spesso mamma all’ospedale psichiatrico. I medici la trattenevano sempre almeno qualche giorno o anche settimana.

Ricordo una volta in particolare.

Quella volta ero convinta che fosse la prima ma poi ho trovato un documento che mi faceva capire che tutte le altre volte ero

troppo piccola per ricordare.

Quella volta mamma e papà sono usciti molto presto. Probabilmente verso le 5 del mattino.
Non avevamo una macchina e quindi sono andati a prendere il bus.

La giornata non me la ricordo per niente. Immagino sia passata giocando con Ana come tante altre volte.

Invece, nel pomeriggio avevamo cominciato a guardare la strada. Sempre più spesso.

Dalla nostra casa sulla montagna vedevamo benissimo la strada giù al mare. E potevamo vedere anche il pullman.

Ogni secondo che si avvicinava verso la sera, sembrava sempre più lungo.
L’ansia e la paura nei nostri cuoricini erano indescrivibili.

Nonno guardava la strada, noi due guardavamo la strada.
Povero nonno probabilmente era in ansia anche lui. Non sapeva cosa dirci, come proteggerci da quella sofferenza.

Non sapevamo cosa è successo, per quale motivo mamma e papà non sono ancora tornati.

Si era fatto buio e dovevamo andare a dormire. Nonno ha acceso la candela sul comodino e noi siamo entrate a letto con due cuori pesanti come se fossero fatti di piombo.

Ricordo che guardavo la candela e pensavo alle parole di mamma: “Non ti avvicinare altrimenti ti bruci!”
Giusto per farti capire, mia mamma potrebbe tranquillamente avere Ansia come secondo nome.

In quel istante avevo paura che nonno si fosse dimenticato di venire a spegnerla.
E quella volta ho immaginato per la prima volta un evento brutto che poteva succedere al quale da bambina non dovevo neanche pensare.

Avevo paura che la candela potesse bruciare tutta la camera. Per fortuna più tardi nonno è venuto a vedere se ci siamo coperte e l’ha spenta.
La camera si è riempita di ombre, del odore della candela spenta e di tanta tantissima ansia e sensazione di abbandono.

Mi sono sentita sola al mondo.

Adesso se potessi tornerei indietro, mi metterei in ginocchio vicino a quel letto e abbracciando le due piccole bimbe susurrerei: “Va tutto bene! Va tutto bene!”

Quella sera sul letto di mamma e papà c’erano queste due bambine di circa 3-4 o 5 anni che sembravano due angeli biondi ai quali il destino crudele aveva appena tagliato le ali.

Siamo andate a dormire senza mamma e senza papà.

Dopo qualche giorno mamma è tornata a casa ma siccome aveva spesso attacchi di panico, paura di morire e ansie di vario genere papà la riportava in ospedale.
Sembrava pericolosa per se stessa e cercava di allontanare me e mia sorella quando sentiva un attacco in arrivo.

Questi erano i primi anni della mia vita. Io, Ana e nonno eravamo sempre insieme.
Mama e papà no, perché mamma restava in ospedale e papà tornava a lavoro.

Ricordo una volta quando sono caduta in giardino. Sono atterrata sulle ginocchia e per qualche secondo ho provato un dolore indescrivibile e non riuscivo neanche ad alzarmi.

In quel momento ho sentito il desiderio di piangere chiamando la mamma come fanno tutti i bambini.
Subito dopo ho pensato: ” È inutile, che la chiamo a fare. Mamma non verrà!”

Quando eravamo tutti insieme il mio mondo erano loro. Tutto quello che avevo erano loro. Tutto quello che conoscevo erano loro.

I rari momenti quando si allargava questo mondo erano i mesi estivi quando venivano a trovarci i nostri parenti italiani.

Io ero timida. Evitavo lo sguardo e spesso sentendomi spaesata davanti a loro mi mettevo a piangere.
La stessa cosa è successa in fotografia mentre zio cercava di fotografarmi.

Arrivata a 5 anni ricordo un pomeriggio quando mia mamma piangeva.

La vicina di casa le diceva di non preoccuparsi perché tutti i bambini prima o poi andranno in asilo e poi a scuola.
Giorno dopo mi hanno lasciata con una signora e una decina di bambini. Tutti sconosciuti! Mai visto prima nessuno di loro.
Non riuscivo a parlare. Non volevo stare lì con loro.
Volevo tornare a casa.

Volevo stare con la mia famiglia anche se non era perfetta.

Volevo chiacchierare e giocare come sempre con mia sorella.
Ho pianto. Era un incubo restare lì.

Quando sono venuti a prendermi ho cominciato a piangere di nuovo. A mio papà ho detto che mi ero dimenticata il mio asciugamanino piccolo e lui mi ha risposto che l’abbiamo portato lì apposta perché mi servirà anche domani.
E così ho capito che dovevo tornare in quel posto pieno di bambini e giocattoli tra i quali mi sentivo spaesata.

Dovevo stare lì ma dentro di me sentivo solo il desiderio di tornare a casa.
Per soffrire di meno mi sono “spenta“, “annullata” in quelle ore.

L’unica cosa per la quale cercavo attenzione era quando dovevo andare in bagno.
Come facevo?
Ovviamente non a parole.
Cominciavo a piangere in silenzio.

Qualche bambino notava le mie lacrime e lo comunicava alla maestra.

In quel momento cominciavano le domande: “Hai fame?”, “Ti fa male qualcosa?” e io facevo il segno di no solo con la testa.
Poi quando chiedevano: ” Devi andare al bagno?” annuivo sempre con la testa e la maestra diceva a una bambina del gruppo di accompagnarmi.

Tornavo a casa e recuperavo le mie chiacchiere.

Dopo due anni di asilo è arrivato il momento di andare a scuola.

Tutti speravano in un improvviso cambiamento ma io ormai avevo l’identità di quella che non parla, quella timida.

La timidezza era come un etichetta che portavo incollata addosso.

In pausa per la merenda andavo a mangiare in sala pranzo con tutti i miei compagni di classe.

Dopo loro andavano tutti a giocare fuori. Io no.

Avevo scelto l’angolo di muri proprio davanti alla porta della mia classe.

Mi attaccavo con la schiena al muro e aspettavo li.

Si, aspettavo proprio lì. Tutti i giorni.

Passavano i professori e io stavo li. Mi sentivo invisibile ai loro occhi. Lo so che sembra incredibile ma è un ricordo che mi fà venire le lacrime agli occhi.

Il primo giorno di scuola era anche l’ultimo giorno di vita con mia mamma.

Quel giorno è stata portata in ospedale e uscendo da lì l’hanno trasferita dai miei nonni.

Amavo le giornate estive quando papà invitava me e Ana di prepararci e ci portava a lavoro.

Lavorava sulla manutenzione di un bellissimo hotel in spiaggia.
Ci portava con lui, ci offriva il suo pranzo e ci faceva divertire tra gli ascensori, parco giochi e la spiaggia.

Spesso i suoi colleghi ci facevano delle domande. Una di quelle più odiose era: “Avete trovato il fidanzatino?”
Noi non rispondevamo e quando non rispondi ti dicono: “Che il gatto ti ha mangiato la lingua?” e mio papà rispodeva: “Sono timide!”

Ma io parlavo con il mio silenzio e mi arrabbiavo quando mi presentava come timida.

Mi faceva sentire peggio.

Mia sorella rispondeva qualche volta. Lei parlava anche a scuola ma alle domande imbarazzanti non rispondeva.

Sono riuscita ad arrivare a metà del anno scolastico senza dire una parola.

Per andare al bagno aspettavo le pause ma a volte era anche un problema alzarmi, attirare attenzione di tutti e camminare fino al bagno. Ero ibernizzata ma dentro di me “bolliva” solo il desiderio di tornare a casa.

Una volta siamo stati portati a giocare lontano da scuola.

Io stavo in disparte come sempre e dovevo fare la pipì.

Ricordo ancora il liquido caldo che mi scende lungo le gambe e bagnando i miei pantaloni verdi di velluto fa vedere a tutti cosa mi è successo.

Purtroppo i professori hanno saputo solo farmi ritornare in cassetta così bagnata. Non mi hanno accompagnato a casa.

Dopo un po’ di tempo il professore è andato in malattia e la professoressa che lo sostituiva ha suggerito a mio papà di portarmi da suo marito che era il medico di famiglia.

Papà mi ha portato da lui ma non ricordo altro.
Suppongo che avranno dato la “colpa” alla nostra situazione in famiglia e che non si poteva fare altro. Dovevamo solo attendere che poi con il tempo mi passerà questa cosa.
Dopo la visita non è cambiato niente.

Qualche mese dopo il mio maestro è tornato e per lui era incredibile la storia di mio papà che gli raccontava della figlia chiacchierona.

Un giorno mio papà ha tirato fuori lo stereo, microfoni e una cassetta e ha chiesto a me e ad Ana di registrare le nostre poesie e cose simili.
Per noi era un bellissimo gioco.
Mia sorella era più spigliata ma ci siamo divertiti tutti e tre.
Poi mio papà mi ha detto di leggere un testo dal mio libro di scuola.
Uno di quelli che i miei compagni di classe dovevano leggere a voce alta davanti a tutti per far valutare al professore se hanno imparato bene la lettura.

Così il professore ha capito che effettivamente parlavo. Non c’era niente che non andava con me.

Un giorno si è rotto le scatole del mio silenzio e mi ha chiesto di leggere un testo.

Io non riuscivo. Non volevo. Io ero quella che non parlava.

Lui aveva deciso di rompere questo silenzio. Urlava. Non ricordo cosa. Ricordo solo le urla e le mie lacrime.
Piangevo così tanto per la paura che mi ha messo.

Ancora oggi non sopporto urla perché mi ricordano il pericolo di quando mamma perdeva la testa urlando.

Suppongo che l’ansia di parlare in quel momento era superata dalla paura di vedere questo professore rosso in faccia con una voce che si sentiva anche fuori dalla scuola.

Piangendo, singhiozzando, senza neanche vedere le lettere sulla pagina avevo cominciato a leggere. Davanti a tutti.

Non è una favola ne illusione dove da quel momento va tutto bene. Ci sono stati alti e bassi ma almeno avevo cominciato a rispondere alle domande anche alle persone alle quali non avrei mai cominciato a parlare per prima.

Non parlavo se non mi si faceva una domanda.

Purtroppo molte generazioni hanno scoperto il mutismo selettivo troppo tardi.

Quando ormai erano grandi.
Quando ormai ogni giorno era un battaglia tra quello che sentivamo dentro e quello che si aspettava la società da noi.

No, non eravamo uguali agli altri bambini.

Ma questo non significa che non avevamo niente da dare o dire al mondo. Anzi!

Le parole nascoste dentro di noi spesso vengono espresse sui fogli di quaderni, con i colori sulle tele e altri modi simili.

Arte è la modalità preferita di esprimerci anche in età adulta.

Grazie di aver letto questo racconto perché tutti noi abbiamo le nostre storie e tutti abbiamo parti di noi che vogliamo condividere con il mondo.

Ovviamente quando sentiamo che sia arrivato il momento giusto.

Non forzare a nessuno di fare qualcosa che pensi che dovrebbe.

Lo fara se e quando si sentirà sicuro vicino a te.
Credi in lui perché suo mondo interiore è ricco di possibilità come il tuo.

Quando ho capito che era il mutismo selettivo quello che mi ha frenato da piccola, ho pianto. Era un pianto di gioia. Da quel momento mi sono sentita liberata dalla gabbia di muttismo selettivo.

Lasciami un commento se anche tu hai avuto il contatto con il mutismo selettivo. Con tutto il cuore voglio leggere la tua esperienza.

Grazie di cuore

By Katica Sjaus

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“PREOCCUPATI DI QUELLO CHE GLI ALTRI PENSANO E SARAI SEMPRE IL LORO PRIGIONIERO.” – Lao Tzu

Photo: Kaboompics .com

Sono passati quasi 30 anni da quando ho avuto la prima volta il desiderio di scrivere il libro.
Ero ancora una bambina che non conosceva il mondo.

Praticamente non avevo neanche la TV in casa.

Non c’era la corrente elettrica e le mie lampadine sul comodino profumavano di cera colata.

Dalla mia casa sulla montagna guardavo il mare e una strada statale che passava a destra e a sinistra. Era l’Adriatica croata.

Ricordo quando con mia sorella pensavamo che questo probabilmente indicasse i quattro confini della Terra con il resto dell’universo.

Davanti a noi c’era il mare. Alle nostre spalle credevamo finisse dietro le montagne.

E quello che ci incuriosiva di più era quando ci chiedevamo come sarebbe prendere la strada a destra o quella a sinistra e percorrerla fino in fondo, alla fine della Terra. Hm!

O come dicevamo noi, fino al confine con il resto del universo.

Immaginavamo una fine dietro alla quale si cadeva direttamente nel vuoto. Come se la Terra fosse piatta.

Questo era il periodo quando avevo già cominciato a sognare di scrivere il libro e di vivere libera dagli legami di lavoro o peggio quelli di matrimonio.

Quindi niente posto fisso, contratto a tempo indeterminato e cose simili.

Crescendo ho cominciato a chiedermi cosa potrei dire io al mondo. Volevo dare il mio contributo slla Terra.

Avevo cominciato a scoprire e leggere storie di scrittori che hanno vissuto bruttissima infanzia e da grandi hanno raggiunto il successo.

Pensavo che anche io potevo prendere quella strada.

Anzi ero già a metà perché anche la mia vita assomiglia a un dipinto pieno di ombre scure.

A questo punto potevo quasi essere a metà strada dato che mi mancava solo il riscatto dalle ombre quando raggiungerò il successo.

In realtà crescendo ho preferito ascoltare il mio cuore e nel frattempo dedicarmi alla lettura.

Ho imparato a testare esperienze di persone che avevano già raggiunto il successo.

Così ho percorso nuove strade, ho acceso la luce e ho scoperto che veramente anch’io posso scrivere un libro.

Peccato che prima volevo diventare perfetta e aspettavo il momento perfetto per scrivere il libro perfetto come dicevo anche nell’ultimo articolo. Qui!

In realtà immagino che avrei messo la maschera di chi volevo diventare e scrivere come si vive bene la vita da perfetti.

Esistono tantissimi libri di questo genere. Persone che raccontano storie mai vissute per cercare la compassione di qualche lettore che acquisterà il libro.

Quella però non sarebbe stata la mia storia. Non avrei dato me stessa in quel racconto.
Avrei rinnegato ogni giorno vissuto nella mia vita. Aspettando la perfezione avrei soltanto confermato a me stessa che ancora non mi andavo bene.

Mi sarei detta che non raggiungerò mai quella vetta che mi sono prefissata.

Invece sono qui, adesso. Oggi sono perfetta proprio così come sono.

È stata una grandissima scoperta che la valutazione della perfezione la misuravo con lo sguardo delle persone intorno a me.

Quella frase:” Cosa dirà la gente?” mi ha frenato tutta la vita.
Ogni decisione che prendevo veniva filtrata con: “Cosa dirà la gente?”.

In realtà non erano gli altri a frenare la realizzazione di miei sogni ma io, da sola.

Nessuno ti può fare del male quanto riesci a farlo da solo.

È un po’ come quando in un film c’è una ragazza troppo ingenua che crede che la stronza di turno fosse sua amica.

Quella sua amica sono stata io con me stessa. I pensieri e discorsi che cercavano di rovinare ogni amore, festa, viaggio, amicizia, lavoro.

Ogni santa volta quella mia amica immaginaria doveva dire la sua.

E la sua era sempre:

“Attenta!”, “Non ti fidare!”,

“È inutile, non diventerai mai brava a lavoro!”,

“È meglio che resti a casa!”, “Ti puoi impegnare quanto ti pare ma non sarai mai bella e brava come loro!”…

Sono sempre stata molto vulnerabile. Bastava poco per smontare anche il desiderio di vivere in me.

Una piccola critica per me significava giorni, settimane o mesi di sofferenza. Alcune frasi risuonano ancora oggi come l’eco nella mia testa.

Il messaggio che ricevevo era “Sei completamente sbagliata!” e “Non vali!”

Credevo di non valere nulla. Credevo di non meritare neanche un secondo di attenzione da parte della gente. Non avrei mai disturbato qualcuno per chiedergli anche solo un informazione.

Quando viaggiavo da sola non ho mai chiesto indicazioni nella città dove passeggiando a volte capitava di perdermi. Io non meritavo il loro tempo.

Mi guardavo intorno e mi sentivo ancora più strana. Nessuno sembrava avere i miei stessi problemi. Solo io. Significava che probabilmente non ero normale, pensavo convinta di questa cosa.

Neanche mia sorella che è un anno più piccola all’epoca non mi sembrava vulnerabile. Pensavo fosse una malattia solo mia.

Nella società che ci insegna di nascondere le proprie emozioni ho creato ancora più sofferenza cercando di nascondere la vulnerabilità, le lacrime e i miei bisogni di amore.

Mi vergognavo di me stessa. Odiavo il fatto di sentirmi diversa.
Alcuni compagni di scuola mi prendevano in giro. Ricordo ancora il dolore di quelle ferite. Quanto può far male una frase detta da un bambino a un altro bambino. E tornando a casa non avevo nessuno a chi raccontarlo.

Nessuno che avrebbe potuto capirmi.

Non c’era nessuno che mi avrebbe protetto da quelle lacrime.
Negli anni 80 e 90 i professori e maestri delle scuole si rendevano conto che ero una bambina con bisogno di aiuto.

La maggior parte di loro conosceva la mia situazione in famiglia ma probabilmente non sapevano cosa fare.

A volte mi sembravo invisibile anche per loro. Tutto il mio comportamento silenzioso, timido e chiuso urlava bisogno di essere vista e aiutata e il mondo continuava la propria corsa sfiorandomi qualche volta per caso.

Ti voglio ringraziare per avermi dato la possibilità di condividere con te un pezzo della mia vita.

Continua a seguirmi e se ti è piaciuto questo articolo dimmelo con un bel like.

Grazie di cuore

By Katica Sjaus

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“IL FUTURO APPARTIENE A COLORO CHE CREDONO NELLA BELLEZZA DEI PROPRI SOGNI.” – Eleanor Roosevelt

Photo: Pixabay

Oggi è un giorno davvero speciale.

È uno di quei giorni quando mi sveglio la mattina e (senza averci pensato per giorni) decido di agire.

Sono più di 30 anni da quando ho scoperto il mio passatempo preferito: scrivere, scrivere è ancora scrivere.

Da bambina sognavo di pubblicare un libro e nel frattempo scrivevo tutto quello che mi veniva in mente.

Ero molto timida e spesso per evitare la compagnia mi isolavo, sognavo, scrivevo e pianificavo la mia vita.
Quella da grande.
La penna e un quaderno erano i miei migliori amici.

Non giudicavano e non mi facevano sentire diversa.

Invece a scuola mi sentivo diversa.

Non parlavo.
Nessuno è riuscito a capire che cosa avevo fino a pochi mesi fà.

Un giorno per caso mi è capitato un articolo che spiegava cosa è mutismo selettivo e all’improvviso mi sono sentita libera…

Le lacrime avevano coperto il mio viso mentre pensavo a quella bambina che combatteva i suoi mostri da sola e non capita da nessuno.

In quel momento avrei voluto tornare indietro nel tempo e abbracciarmi così piccolina e indifesa.

Per fortuna che tornando a casa stavo molto bene nel mio mondo magico. Li era possibile realizzare tutto quello che sognavo.

Ho sempre creduto nella magia. Anche quando la vita mi mostrava le carte perdenti, io sapevo che non poteva essere così per sempre.

La magia era quella bellissima sensazione che mi accompagnava a dormire quando non lo facevano mamma e papà.

Mi addormentavo immaginando una vita nella quale riuscivo a realizzare tutti i miei sogni.

Erano i sogni di una bambina che ha vissuto la sua infanzia sotto gli sguardi della gente che non credeva più nella magia.

Invece per me era tutto quello che avevo. Anche se sembrava di vivere in un film in bianco e nero, io sognavo di vivere a colori.

Sognare è credere che sia possibile vivere una vita migliore altrimenti non avrebbe senso niente.

Non mi ha mai convinto la storia: nasci, vivi muori e poi vai in paradiso (se te lo sei meritato!)

Io credo in qualcosa che abbia più senso e non mi importa se gli altri non la pensano come me.
Io vivo già in paradiso.

Hai mai guardato bene il mare, la natura, i fiori, animali, amore che proviamo per i nostri cari? Questo non può che essere il paradiso.

Altrimenti che senso avrebbe la vita?

Sono sicura che esistono altre persone con i stessi pensieri e le stesse paure.

Se ti riconosci sono sicura che anche tu credi ancora oggi in quella magia che ti ha accompagnato sulla tua strada da piccolo.

Lasciami il tuo commento perchè mi farebbe davvero piacere trovare altre esperienze di persone che come me non si sono arrese ancor prima di cominciare a vivere.


Grazie di cuore ❤

By Katica Sjaus

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